La brutta storia della stria di Cervarolo

Fin da piccoli nelle favole ci viene insegnato che il diverso è brutto, iracondo, malevolo. Ma non è forse vero che l’inconsuetudine porta rinnovamento? Guardare con occhi diversi la realtà è sempre stimolo per il cambiamento per dispiegare l’ingegno verso il nuovo a prescindere se questo sia positivo o meno, esercitando cosi la libertà del libero arbitrio. Nella tradizione ipocrita viceversa si annida sempre la conservazione dello stato di cose presenti e su questo si basa la religione e il dominio dai pochi sui molti.

La storia di Margherita Guglielmina Degaudenzi però è vera, tranne il fatto, tutto da dimostrare, che fosse effettivamente una strega.

La brutta storia della stria di Cervarolo
(dalle note di Caterina Triglia, in: La strega di Cervarolo, ed. Corradini, 1983)
Cervarolo (876 m), una piccola borgata della Val Mastallone, collocata su un ripido pendio a pochi chilometri da Varallo, ha conosciuto nei primi decenni dell’800 un fatto di cronaca “nera”, che ha riportato indietro la Storia di parecchi secoli, quasi a ricordare i tempi in cui il braccio secolare dell’Inquisizione si abbatteva inesorabile sui “diversi”.
L’ambiente.
Erano trascorsi pochi anni da quando, a seguito della Restaurazione subentrata alla parentesi napoleonica, l’intera Valsesia era ritornata sotto il pieno controllo del regno di Piemonte e a Cervarolo, paese decisamente tranquillo che in precedenza non aveva mai fatto registrare fatti di cronaca particolari, vivevano nel 1828 poco più di 1200 persone, dedite alle attività tradizionali delle località alpine.
Tre secoli prima, la località si era costituita in parrocchia autonoma, staccandosi da Varallo, e da allora formava anche un Comune a sé stante. Ad oggi i residenti si sono invece ridotti notevolmente di numero e Cervarolo è tornata ad essere una semplice frazione di Varallo.
Il fatto.
La sera del 22 gennaio 1828, un barbaro omicidio venne a turbare la vita serena dell’intera comunità. Nel cortile della sua casa era stata infatti uccisa a botte e a bastonate una donna, di nome Margherita e di cognome Guglielmina.
La vittima era una vedova di 64 anni, né ricca né povera, che viveva in quella casa di sua proprietà con l’unica figlia, Marta Maria, a quel tempo gravemente ammalata.
Le indagini vennero condotte anche con l’ausilio di numerose testimonianze di persone del luogo, e vennero rapidamente concluse dai membri del Regio Fisco del Tribunale di Prefettura di Varallo che identificarono come autori materiali del fatto due uomini del paese: Giovanni Antonio Degaudenzi e Gaudenzio Folghera. I due indiziati, dopo il delitto, si resero subito irreperibili.
Ne risultò tuttavia un quadro abbastanza chiaro di come si fossero svolti gli avvenimenti. Emerse infatti che poche ore prima del delitto i due uomini si erano trovati con altre persone in un’osteria del paese, dove si erano levate accese voci di condanna nei confronti della Guglielmina, ritenuta da tempo una strega e colpevole di aver fatto prematuramente morire con un maleficio un uomo di Carvarolo, nonché di averne fatto seriamente ammalare un secondo.
Folghera e Degaudenzi, variamente imparentati con le due supposte vittime del maleficio, decisero quindi di attuare una spedizione punitiva, che non lasciò scampo alcuno alla vittima, nonostante le sue disperate implorazioni e di quelle della figlia, preventivamente rinchiusa a forza dai due assassini in una stanza al primo piano della casa.
Un passo indietro: l’antefatto.
Pare che tutto fosse stato originato da un’antica credenza, che aveva trovato corpo in paese, circa presunte arti magiche possedute dall’anziana vedova. Veniva chiamata la stria Gatina e considerata come una perditempo noiosa e petulante, che ossessionava i vicini con inattese quanto indesiderate intrusioni nelle abitazioni, dalle quali era sempre difficile allontanarla. Secondo quanto riferì in seguito anche un noto scrittore valsesiano contemporaneo, Giuseppe Lana (in Errori volgari nella fisica, Milano, 1830), la donna aveva”…una statura alta, con una faccia deforme, nera, bitorzoluta, con una guardatura fiera, contorniata da un profondo increspamento degli angoli delle palpebre… con un tono di voce sonoro e risoluto, e tutto ciò accompagnato da un umore ipocondriaco e bisbetico, era dessignata dai più del paese per una strega e persino con tale nome veniva chiamata dai ragazzi, che nel dirglielo in passando, precipitosamente fuggivano e si nascondevano”. Da tutta questa massa di superstizioni scaturiva anche che la Gatina avesse diretto in modo particolare i suoi malefici verso quel compaesano morto di recente e verso quell’altro quasi in fin di vita.
Le due persone che erano state bersaglio della presunta stregoneria, avevano abbattuto qualche tempo prima una pianta di noci che stava in un campo precedentemente posseduto dalla Margherita Guglielmina, e quest’ultima non aveva visto di buon occhio l’operazione, giungendo per l’appunto a predire ai due uomini una fine imminente. Una “fattura”, quindi, che a giudizio unanime aveva ottenuto il suo scopo e che avrebbe potuto ripetersi nei confronti di altre persone, se qualcuno per tempo non avesse posto “finalmente” termine alle malvagità stregonesce della Gatina.
Questa opinione era dunque largamente condivisa in paese, tanté che in quella famosa osteria non furono pochi coloro che istigarono i due candidati assassini a superare i residui timori, per poter giungere il più presto possibile alla “soluzione finale” del problema. E fra gli istigatori comparivano i nomi delle persone più in vista nella comunità di Cervarolo. Secondo un testimone, infatti, “…la pubblica voce vuole che li nominati Degaudenzi e Folghera siano stati animati dalli Giovanni Delzanno vice-sindaco, e Giuseppe Tognini consigliere, i quali hanno semplicemente detto ai nominati individui di andare ad intimorire un poco la Guglielmina per farle disdire quello che aveva fatto, cioé l’incantesimo…”. Inoltre, lo stesso teste aggiunse che “… Degaudenzi ebbe a dire pubblicamente che esso e il suo compagno avevano la permissione dell’amministrazione quando si erano recati alla casa della Guglielmina, e che lavoravano senza timore”.
Il giudizio.
Sul finire del maggio 1828 i due imputati principali vennero condannati in contumacia a 7 anni di reclusione per il Folghera e a 10 anni per il Degaudenzi, con l’iscrizione fra i “banditi di secondo catalogo”. Si trattò di una condanna alquanto mite, che presuppone l’affermazione della tesi di un omicidio preterintenzionale. Altri tre imputati minori, il vice-sindaco e due persone del paese, accusati di istigazione a delinquere, dopo alcune settimane trascorse nelle regie carceri di Varallo, furono prosciolti dalle accuse e rilasciati.
Cervarolo ritornò quindi alla normalità e soltanto tre anni dopo, nel 1831, l’indulto generale concesso da Carlo Alberto, nuovo re del Piemonte succeduto a Carlo Felice, chiuse definitivamente il capitolo concernente i due assassini, dei quali se ne persero comunque per sempre le tracce.
Ma se la vicenda della Gatina, uccisa perché diversa, brutta e scontrosa quindi senz’altro “strega”, potrebbe apparire confinata in un ambito socio-culturale ristretto, in realtà è l’espressione di una credenza che si è tramandata, non soltanto in Valsesia, dove la povertà mentale e l’istigazione clericale hanno perpetuato fin dai tempi più antichi ad oggi, quasi a riconfermare la continuità di forme di pregiudizio e di  superstizione che si vorrebbero da tempo dimenticate … 

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi-
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla

Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

Nasce a Santo Stefano Belbo (Cuneo) nel 1908 da una famiglia originaria di quei luoghi, le Langhe, tanto cari allo stesso scrittore. Studia a Torino, dove si laurea con una tesi su Walt Whitman, divenendo un esperto di letteratura angloamericana. Nella città piemontese comincia a frequentare gli ambienti della casa editrice Einaudi, intorno alla quale si erano radunati molti antifascisti. In quel periodo comincia anche l’attività di traduttore di scrittori inglesi e americani classici e contemporanei, tra i quali Daniel Defoe, Charles Dickens, Herman Melville, Sherwood Anderson, Gertrude Stein, John Steinbeck e Ernest Hemingway.

Nel 1935 viene condannato al confino a Brancaleone Calabro; qui inizia a scrivere una specie di diario, che sarà pubblicato postumo, nel 1952, con il titolo "Il mestiere di vivere". Torna a Torino l’anno seguente e durante la guerra si nasconde in casa della sorella Maria, sulle colline del Monferrato. Anche da questa esperienza nasce uno dei suoi libri migliori, "La casa in collina" (1948).

Nell’ambito della poesia esordisce nel 1936 con "Lavorare stanca". Dopo questa pubblicazione, seguono altre produzioni in prosa, come il romanzo "Paesi tuoi "(1941) e i racconti lunghi e politicamente impegnati come "Il carcere" (1938-39), "La casa in collina" e "La spiaggia" (1941), seguiti dai racconti di "Feria d’agosto" (1946), il romanzo "Il compagno" (1947) e "La bella estate" (1949). Nel 1947 escono "I Dialoghi con Leucò", ma la consacrazione definitiva avviene con "La luna e i falò" nel 1950. Il 27 Agosto del 1950, in un albergo di Torino, Pavese si toglie la vita oppresso da una grave forma di depressione che lo aveva accompagnato in quasi tutta la sua esistenza, cedendo a quello che aveva chiamato il "vizio assurdo". Dopo la sua morte viene pubblicata un’altra raccolta poetica, "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi" (1951).

Morti sul lavoro. Il testo unico una vergogna italiana

tratto da www.dazebao.org di Marco Bazzoni*

Evidentemente tutti gli infortuni, gli invalidi, le malattie professionali e le morti sul lavoro non sono abbastanza se il Governo Berlusconi ha pensato bene di smantellare il Dlgs 81/08 (testo unico per la sicurezza sul lavoro) con il Dlgs 106/09 (decreto correttivo), piuttosto che renderlo funzionale. E pensare che il Ministro del Lavoro Sacconi dopo la strage sul lavoro al depuratore di Mineo (CT) dell’11 giugno 2008, che costò la vita a sei operai comunali, annunciò un piano straordinario per la sicurezza.

Se per piano straordinario intendeva questo decreto, beh, allora stiamo freschi. Per anni sono state chieste pene più severe per i datori di lavoro responsabili di gravi infortuni e morti e per quelli che non rispettano la sicurezza sui luoghi di lavoro.

Ora il governo che fa, dimezza la maggior parte delle sanzioni ai datori di lavoro, dirigenti e preposti, ma non solo. Non contento, non potenzia neanche i controlli. Che poi qualche imprenditore becchi qualche multa è alquanto improbabile. Visto l’esiguo numero di  personale ispettivo delle Asl diventerà una vera e propria rarità ricevere un controllo, in quanto, se va bene potrà verificarsi ogni 33 anni. Ma non è finita qui. Onde evitare che qualche imprenditore finisse in galera si è previsto che l’arresto possa essere tramutato in sanzione amministrativa. Inoltre, ciliegina sulla torta la salva manager non è stata cancellata, ma semplicemente riscritta. Certo non è spudorata come la precedente, ma da sempre spazio a manovre e cavilli vhe alla fine favoriranno i manager. C’è da chiedersi come mai Napolitano abbia potuto firmare questo decreto, sapendo che questa norma non era stata cancellata. L’intento era evidente, scaricare le responsabilità dei manager su preposti, lavoratori, progettisti, fabbricanti, installatori e medici competenti. Non essendoci certezza della pena, anche se nella remota ipotesi un datore di lavoro venga condannato per la morte di un lavoratore, il carcere "lo vedrà con il binocolo".

Eppure il ricordo di queste tragedie non si può cancellare. Come quella di Andrea Gagliardoni, morto il 20 giugno del 2006 a soli 23 anni con la testa schiacciata in una pressa tampografica nella ditta Asoplast di Ortezzano (AP), o  Matteo Valenti, morto bruciato, dopo 4 giorni di agonia per un gravissimo infortunio sul lavoro (8 novembre 2004) nella ditta Mobiloil di Viareggio, oppure i quattro operai morti carbonizzati nell’esplosione alla Umbria Olii di Campello sul Clitunno (25 novembre 2006), e allo loro famiglie che spettano ancora  giustizia: 8 mesi con la condizionale per la morte di Andrea Gagliardoni, 1 anno e 4 mesi con la condizionale per la morte di Matteo Valenti , mentre quello per la morte dei 4 operai alla Umbria Olii non è neppure iniziato, e al momento non si sa quando avrà luogo.

Viene da chiedersi: ma in che paese viviamo? Ci definiamo una "Repubblica fondata sul lavoro", ma forse sarebbe più corretto dire, una "Repubblica fondata sulle morti sul lavoro". Come si fa a definire civile, un paese dove ogni anno ci sono 1200 morti sul lavoro? Qualcuno, come l’Inail, adesso dirà che nell’anno 2008 c’è stato un calo di morti sul lavoro con soli 1120 decessi. Ma andrebbe ricordato che dal 2008 ad oggi stiamo attraversando la più grossa crisi finanziaria ed economica dal secondo dopoguerra ad oggi, e che quel calo dipende più da una sostanziale riduzione di lavoratori  a causa della cassaintegrazione, della mobilità e della chiusure di molte aziende, e non da una maggiore sicurezza nei luoghi di lavoro.

Tuttavia se vogliamo proprio dirla tutta, nemmeno i dati dell’Inail non sono oro colato. Questi, infatti, non tengono conto degli infortuni denunciati come malattia, che si stima siano intorno a 200 mila ogni anno se non oltre, di tutti i lavoratori che muoiono in "nero" che vengono abbondonati fuori dai cantieri o dalle fabbriche. Poi ci sono gli Rls, cioè i rappresentanti dei lavoratori, che denunciano la scarsa sicurezza in azienda, e che spesso sono oggetti di minacce, e di sanzioni amministrative che possono arrivare fino al licenziamento in tronco.  Il caso del macchinista delle ferrovie Dante De Angelis insegna,  la cui unica colpa è quella di aver denunciato prima alla sua azienda, e poi ai mezzi d’informazione la scarsa manutenzione e sicurezza sui treni eurostar.

E’ passato un anno dal suo licenziamento, ma ad oggi non è stato ancora reintegrato, nonostante le migliaia di firme raccolte in suo favore, e soprattutto alla luce degli utlimi episodi, come quello di Viareggio del 29 giugno scorso che ha causato 29 morti,e le cui le denuce di De Angelis si sono rivelate fondate. Vale la pena ricordare, che dal 14 giugno 2009 è stato introdotto il "macchinista unico", e purtroppo, gli incidenti ferroviari, sono destinati tristemente ad aumentare.

*Rappresentante dei lavoratori per la sicurezza

ORMAI E’ FATTA

La spettacolarizzazione che ha seppellito l’uomo Horst Fantazzini, trasformando il suo spazio nello spazio occupato da  un "rassicurante mito", e’ fatta di articoli di giornale, di racconti, di saggi, di studi sociologici e addirittura di un film.
Non desideriamo certo buttare altre palate di terra sul suo cadavere.
Inoltre lo stesso Horst Fantazzini ha lasciato, di suo, documenti, lettere, racconti autobiografici, poesie e disegni.
Che senso avrebbe, dunque, scrivere e pubblicare una canzone su Horst Fantazzini, oggi?
Ma la nostra ORMAI E’ FATTA non parla minimamente di Horst, o di Fossano, o del bandito gentile o dell’anarchico non violento.
Perche’ a noi, Horst Fantazzini, non ha parlato di queste cose.
Nei suoi scritti, nella sua vita, noi abbiamo trovato rilevante solo la dialettica tra individuo e societa’… il desiderio dell’uomo di essere libero subito, senza aspettare nessun "sole dell’avvenire", nessuna rivoluzione… l’attimo esatto in cui l’uomo comprende l’unicita’ della sua esperienza vitale e rifiuta la gabbia, il ricatto… l’attimo esatto in cui, violato il divieto, passato quel confine, il corpo e la mente si liberano paradossalmente di un peso infinito e fanno sorridere colui che con i fucili puntati addosso, pensa leggero… ORMAI E’ FATTA.

 

La potenza del messaggio e’ tanto piu’ fulgida quanto piu’ debole e’ il testimone.
Bene: il figlio di un anarchico, anarchico anch’egli, che ha passato piu’ di 30 anni in carcere, dice che la sua vita e’ ora. E che ora deve provare ad essere libero. O mai piu’.

C’e’ un esercito in armi ad attendere l’individuo che compie questa scelta.
La nostra canzone parla della dialettica tra l’individuo e quell’esercito. Della ragionevolezza della scelta. Della sua logicita’. Della gioia che conduce il vivere vincendo la paura di oltrepassare quel confine.
E secondo noi in quest’epoca, in questo momento ed in questo luogo, ha senso (e come se ha senso…!) scriverla e pubblicarla.

Kap per Centro Sociale Trakkignani

Partigiani e Squatter uniti e ribelli … come la gramigna

In realtà sono solo appunti, nessuno ha voluto seguirci su quella strada, pensavo tra me e me. Avevamo scelto di evidenziare la dimensione "comunitaria" delle storie e di chi le racconta perché  ci sembrava quella la questione da affrontare. In realtà  stavamo parlando dell’uovo di colombo, o della lettera rubata del racconto di Poe, in fondo di constatazioni banali, descrizioni assolutamente pragmatiche di cose che succedevano e succedono ogni giorno. Ogni bar, ogni compagnia di amici ha il suo cantastorie, che è uno storico orale, ma anche il rielaboratore della memoria del luogo e/o del gruppo.
Parliamo dell’antifascismo, dell’antirazzismo, dell’egualitarismo di un pensare e agire la politica che abbia come fine ultimo l’emancipazione dalle classi dominati, la liberazione dei nuovi schiavi, il riscatto degli oppressi. Quelli che una volta erano pensieri condivisi da gran parte dell’arco costituzionale sono ora ingombranti intralci da tacere, retaggio di un’epoca in cui il conflitto sociale era lo strumento di un lavoro politico e non un fantasma da rinchiudere con imbarazzo in un armadio.
Lo stesso ceto politico che si inchina ai poteri forti, della quale esso stesso è parte, alle gerarchie ecclesiastiche, ai poteri economici, che si vergogna della Resistenza, a lungo confinata in una irreale dimensione di lotta del Bene contro il Male.
In questi tempi difficili persino questa interpretazione è troppo progressista, dal momento che intralcia almeno formalmente l’attenta opera di riciclo dei post-fascisti mai pentiti e, soprattutto, si contrappone a una operazione di capillare diffusione di messaggi xenofobi, razzisti, discriminatori, omofobi.
Tale operazione non passa attraverso analisi e dibattiti, ma si accontenta di riletture mediatiche della storia di ieri e di oggi: semplificazioni a uso dei mass media, costruite a colpi di fiction, di film di serie B, di salotti televisivi, di attori dal volto accattivante, di registi prezzolati, di dirigenti compiacenti della TV pubblica e privata.
Questa produzione mediatica è anche una produzione culturale e risponde a precise esigenze politiche: dire che i fascisti non erano poi così cattivi, che spesso non erano d’accordo con i nazisti, che anzi lottavano strenuamente per difendere la popolazione italiana è la premessa logica per riproporre alcune teorie e alcune pratiche che avevano proliferato nel ventennio e che sono insite nel bagaglio culturale della classe dominante di questo Paese.
Contro queste teorie e queste pratiche hanno combattuto i partigiani della Resistenza e continuano a combattere ancora oggi per chi le sa vedere, portando ovunque una testimonianza che vuole essere anche un monito, non solo la narrazione di un pezzo di storia che è stata.
 Contro queste teorie e queste pratiche continuano a combattere le compagne e i compagni dei collettivi studenteschi, delle università e delle strutture di base. Tutti coloro che insistono nel ricordare come la Resistenza abbia significato guerra antifascista, conflitto sociale, lotta popolare e che ogni eccidio fascista, ogni omicidio delle squadracce, ogni offensiva dei camerati di ieri e di oggi è un’aggressione alle masse popolari, agli umili, agli oppressi, ai proletari, a quella che è la parte migliore della società.
I partigiani tra gli squatter.  La Resistenza e lo Spirito di Seattle. Fazzoletti rossi di cinquant’anni fa e i black block. Cortocircuito ideale, gioco di rimandi che starebbe bene in un libro, ma ancor più nelle piazze e forse ogni tanto ci sta.
Perché sono le condizioni che ci mettono insieme, creare le occasioni dunque è strategico.
I vecchi nemici dei nazifascisti e giovani avversari della globalizzazione sono, devono essere,  dalla stessa parte.