Contro ogni carcere, giorno dopo giorno (1)

Dell’aurora (come un carcere che brucia)

in fondo alla strada c’e’ lo scheletro di un palazzo. opera interminata e interminabile. intorno allo scheletro ci sono sterpaglie ed enormi pozzanghere che gelando hanno imprigionato ogni sorta di schifezza… scorgi a meta’ buste di plastica e carcasse di animali morti. intorno e’ la neve, cristallina. l’unica cosa pulita, con il cielo sopra i rami spogli e incatramati…..
se la notte esci in strada a guardarti intorno riesci, qualche volta, a squarciare il velo dell’abitudine, dell’assuefazione che altrimenti ti attanaglia qui come in altri posti dove si accatastano vite piano su piano. senza soluzione di continuita’. senza omogeneita’. senza gioia. senza vita. vite senza vita. alveari di schiavi. inferni di zombi. ….
qui come in altri posti non servono le grate alle finestre. qui gli zombi hanno le cancellate chiuse dentro la testa. a mandate severe. evasione…? solo un sogno. e come sogno materializzato e venduto. spacciato, per la precisione. cosi’ corre ai ripari il sistema… anticipa anche l’idea dell’evasione…..
le guardie, gli operai, i disoccupati, i funzionari. ognuno e’ il carceriere dell’altro. e di se stesso, ovviamente…..
questo posto e’ un posto qualunque dove il carcere vive dentro le persone. ed un posto cosi’ e’ esportabile ad ogni latitudine etichettandolo come meglio si crede… lo si riesce a chiamare democrazia, o progresso, o libero mercato o addirittura liberta’…..
ma in realta’ e’ solo una galera. un carcere. e ne ha tutto l’aspetto per chi non e’ assuefatto alla prigionia e riesce a guardarlo per cio’ che e’…..
la mattina, quando arriva l’aurora, se ti trovi sulla porta e guardi verso la citta’, puoi vedere una luce potente rimbalzare d’improvviso sul ghiaccio e la nebbia, e correre poi su verso il cielo a sbattere contro le poche nuvole basse, per avvolgere ogni forma…..
e allora sembra che tutto vada a fuoco…..
quando capita cosi’, e’ il momento in cui anche questo posto sembra bello…..

“…bello come un carcere che brucia”

(dal blog al_pessimo_esempio)

La brutta storia della stria di Cervarolo

Fin da piccoli nelle favole ci viene insegnato che il diverso è brutto, iracondo, malevolo. Ma non è forse vero che l’inconsuetudine porta rinnovamento? Guardare con occhi diversi la realtà è sempre stimolo per il cambiamento per dispiegare l’ingegno verso il nuovo a prescindere se questo sia positivo o meno, esercitando cosi la libertà del libero arbitrio. Nella tradizione ipocrita viceversa si annida sempre la conservazione dello stato di cose presenti e su questo si basa la religione e il dominio dai pochi sui molti.

La storia di Margherita Guglielmina Degaudenzi però è vera, tranne il fatto, tutto da dimostrare, che fosse effettivamente una strega.

La brutta storia della stria di Cervarolo
(dalle note di Caterina Triglia, in: La strega di Cervarolo, ed. Corradini, 1983)
Cervarolo (876 m), una piccola borgata della Val Mastallone, collocata su un ripido pendio a pochi chilometri da Varallo, ha conosciuto nei primi decenni dell’800 un fatto di cronaca “nera”, che ha riportato indietro la Storia di parecchi secoli, quasi a ricordare i tempi in cui il braccio secolare dell’Inquisizione si abbatteva inesorabile sui “diversi”.
L’ambiente.
Erano trascorsi pochi anni da quando, a seguito della Restaurazione subentrata alla parentesi napoleonica, l’intera Valsesia era ritornata sotto il pieno controllo del regno di Piemonte e a Cervarolo, paese decisamente tranquillo che in precedenza non aveva mai fatto registrare fatti di cronaca particolari, vivevano nel 1828 poco più di 1200 persone, dedite alle attività tradizionali delle località alpine.
Tre secoli prima, la località si era costituita in parrocchia autonoma, staccandosi da Varallo, e da allora formava anche un Comune a sé stante. Ad oggi i residenti si sono invece ridotti notevolmente di numero e Cervarolo è tornata ad essere una semplice frazione di Varallo.
Il fatto.
La sera del 22 gennaio 1828, un barbaro omicidio venne a turbare la vita serena dell’intera comunità. Nel cortile della sua casa era stata infatti uccisa a botte e a bastonate una donna, di nome Margherita e di cognome Guglielmina.
La vittima era una vedova di 64 anni, né ricca né povera, che viveva in quella casa di sua proprietà con l’unica figlia, Marta Maria, a quel tempo gravemente ammalata.
Le indagini vennero condotte anche con l’ausilio di numerose testimonianze di persone del luogo, e vennero rapidamente concluse dai membri del Regio Fisco del Tribunale di Prefettura di Varallo che identificarono come autori materiali del fatto due uomini del paese: Giovanni Antonio Degaudenzi e Gaudenzio Folghera. I due indiziati, dopo il delitto, si resero subito irreperibili.
Ne risultò tuttavia un quadro abbastanza chiaro di come si fossero svolti gli avvenimenti. Emerse infatti che poche ore prima del delitto i due uomini si erano trovati con altre persone in un’osteria del paese, dove si erano levate accese voci di condanna nei confronti della Guglielmina, ritenuta da tempo una strega e colpevole di aver fatto prematuramente morire con un maleficio un uomo di Carvarolo, nonché di averne fatto seriamente ammalare un secondo.
Folghera e Degaudenzi, variamente imparentati con le due supposte vittime del maleficio, decisero quindi di attuare una spedizione punitiva, che non lasciò scampo alcuno alla vittima, nonostante le sue disperate implorazioni e di quelle della figlia, preventivamente rinchiusa a forza dai due assassini in una stanza al primo piano della casa.
Un passo indietro: l’antefatto.
Pare che tutto fosse stato originato da un’antica credenza, che aveva trovato corpo in paese, circa presunte arti magiche possedute dall’anziana vedova. Veniva chiamata la stria Gatina e considerata come una perditempo noiosa e petulante, che ossessionava i vicini con inattese quanto indesiderate intrusioni nelle abitazioni, dalle quali era sempre difficile allontanarla. Secondo quanto riferì in seguito anche un noto scrittore valsesiano contemporaneo, Giuseppe Lana (in Errori volgari nella fisica, Milano, 1830), la donna aveva”…una statura alta, con una faccia deforme, nera, bitorzoluta, con una guardatura fiera, contorniata da un profondo increspamento degli angoli delle palpebre… con un tono di voce sonoro e risoluto, e tutto ciò accompagnato da un umore ipocondriaco e bisbetico, era dessignata dai più del paese per una strega e persino con tale nome veniva chiamata dai ragazzi, che nel dirglielo in passando, precipitosamente fuggivano e si nascondevano”. Da tutta questa massa di superstizioni scaturiva anche che la Gatina avesse diretto in modo particolare i suoi malefici verso quel compaesano morto di recente e verso quell’altro quasi in fin di vita.
Le due persone che erano state bersaglio della presunta stregoneria, avevano abbattuto qualche tempo prima una pianta di noci che stava in un campo precedentemente posseduto dalla Margherita Guglielmina, e quest’ultima non aveva visto di buon occhio l’operazione, giungendo per l’appunto a predire ai due uomini una fine imminente. Una “fattura”, quindi, che a giudizio unanime aveva ottenuto il suo scopo e che avrebbe potuto ripetersi nei confronti di altre persone, se qualcuno per tempo non avesse posto “finalmente” termine alle malvagità stregonesce della Gatina.
Questa opinione era dunque largamente condivisa in paese, tanté che in quella famosa osteria non furono pochi coloro che istigarono i due candidati assassini a superare i residui timori, per poter giungere il più presto possibile alla “soluzione finale” del problema. E fra gli istigatori comparivano i nomi delle persone più in vista nella comunità di Cervarolo. Secondo un testimone, infatti, “…la pubblica voce vuole che li nominati Degaudenzi e Folghera siano stati animati dalli Giovanni Delzanno vice-sindaco, e Giuseppe Tognini consigliere, i quali hanno semplicemente detto ai nominati individui di andare ad intimorire un poco la Guglielmina per farle disdire quello che aveva fatto, cioé l’incantesimo…”. Inoltre, lo stesso teste aggiunse che “… Degaudenzi ebbe a dire pubblicamente che esso e il suo compagno avevano la permissione dell’amministrazione quando si erano recati alla casa della Guglielmina, e che lavoravano senza timore”.
Il giudizio.
Sul finire del maggio 1828 i due imputati principali vennero condannati in contumacia a 7 anni di reclusione per il Folghera e a 10 anni per il Degaudenzi, con l’iscrizione fra i “banditi di secondo catalogo”. Si trattò di una condanna alquanto mite, che presuppone l’affermazione della tesi di un omicidio preterintenzionale. Altri tre imputati minori, il vice-sindaco e due persone del paese, accusati di istigazione a delinquere, dopo alcune settimane trascorse nelle regie carceri di Varallo, furono prosciolti dalle accuse e rilasciati.
Cervarolo ritornò quindi alla normalità e soltanto tre anni dopo, nel 1831, l’indulto generale concesso da Carlo Alberto, nuovo re del Piemonte succeduto a Carlo Felice, chiuse definitivamente il capitolo concernente i due assassini, dei quali se ne persero comunque per sempre le tracce.
Ma se la vicenda della Gatina, uccisa perché diversa, brutta e scontrosa quindi senz’altro “strega”, potrebbe apparire confinata in un ambito socio-culturale ristretto, in realtà è l’espressione di una credenza che si è tramandata, non soltanto in Valsesia, dove la povertà mentale e l’istigazione clericale hanno perpetuato fin dai tempi più antichi ad oggi, quasi a riconfermare la continuità di forme di pregiudizio e di  superstizione che si vorrebbero da tempo dimenticate … 

ma dove cazzo corri ?

in un immaginario scambio di idee con un libertario di AcrataZ …

Cosa succederebbe se non ci fosse lo stato, il governo?

William Godwin ha una risposta: che se gli uomini sono razionali, non occorre fare leggi razionali AL DI SOPRA di loro. Insomma senza il governo saremmo non meno razionali di adesso. Anche Stirner ha una risposta: al posto degli stati e delle società fatte a uso e consumo degli stati e di chi li possiede, si può avere l’Unione degli Egoisti, dove ciascuno sta perché sta bene, e non perché ci deve stare.
Beh, a dire il vero quasi tutti i pensatori anarchici e libertari hanno una risposta a questa domanda; se vuoi cercarle, non resterai a mani vuote.

Per le pensioni, io dico: facciamo un passo indietro. Perché si lavora? per mangiare? magari si lavorasse solo per mangiare! Perché le tasse? Lo stato si arroga il non dirti dove vanno esattamente i soldi che paghi tu. Per pagare un euro di ambulanze, intanto hai pagato tre euro di cacciabombardieri. Ti sembra corretto?
E per le pensioni in senso stretto, credi che una organizzazione non statale non saprebbe organizzare il mutuo soccorso? Invece sì, guarda la storia.

Per la pubblica istruzione, è una gran truffa. Ti obbliga a studiare certe cose piuttosto che tutte le altre, se ne frega di quello che sei e di quello che vuoi fare tu, e se alla fine di tutto il giro resti povero e ignorante come prima, il che è statisticamente arci-provato, ti dice che è colpa tua, che hai avuto le stesse opportunità degli altri ma hai fallito.
Ivan Illich lo spiega così: la scuola è l’agenzia pubblicitaria che ti fa diventare consumatore felice di un mondo di merda. Come fare? Illich pensava a un buono-scuola, quando hai voglia di imparare una cosa te lo usi. Un po’ come hai fatto tu leggendoti delle cose sull’anarchia… non te l’ha mica chiesto il prof di filosofia, vero?

Cosa sarebbe un paese senza leggi?
E che ci importa cosa sarebbe “il paese”? Che roba è “il paese”? parliamo di noi, delle persone. Gli anarchici pensano in generale che delle persone più libere sono più felici. Qui entra in gioco la paura di essere liberi: se io quando sono lasciato libero sto male perché ho paura, devo prima togliermela per poter essere libero da dentro, da me, autoregolandomi.

Chi stabilisce le regole se non c’è il potere legislativo ?
I diretti interessati! Anche la redazione AcrataZ ha delle regole, ad esempio i criteri di pubblicazione su AcrataZ, ma sono intese come un MEZZO sempre in discussione, non un dogma, un fine o non un dovere.
A proposito, ci sono moltissimi esempi storici di associazioni dove le regole valgono sono per chi le accetta: a parte i “soliti” anarchici, diverse associazioni legate nel diritto germanico, il consiglio degli indiani Irochesi, e anche cose molto istituzionali, come le corti d’Aragona fino a metà del sedicesimo secolo, o la Dieta polacca di un tempo. In realtà ogni federazione degna di questo nome ha caratteristiche simili, e puoi leggere su AcrataZ l’articolo su di Gigi di Lembo sul Federalismo e Carlo Pisacane per capire come il tutto può essere pensato su grande scala.

Che cos’è la libertà?
La tua libertà, solo tu la sai, momento per momento. Non puoi chiederlo a noi che cos’è… ma possiamo cercare insieme di essere sempre più liberi di essere felici.
Un buon punto di partenza per essere liberi sembra essere quello di fare una bella pulizia; togliersi la crosta di regole che ti vengono colate addosso sin dalla più tenera infanzia, e recuperare un poco di mobilità. Se non ti puoi proprio muovere è un po’ triste disquisire su dove andare.
Un punto interessante è che togliendoti tutta questa carcassa di paure e inferiorità, potresti stare male, sentirti perduto… quando vai in profondità devi capire bene cosa è tuo e cosa non lo è, cosa serve solo a chi te lo ha inculcato e cosa invece piace a te.
Personalmente non so se uno che NON conosce se stesso può comunque essere libero in modo sistematico e volontario, non accidentale; direi di no, ma non so.

Perché uno non può avere una idea da persona anarchica e nello stesso tempo essere cattolico?
Mmm. Mi sembrano cose contraddittorie. Il cattolicesimo che conosco benedice le dittature, le guerre, maschera l’ingiustizia del mondo con raffinati discorsi, delega tutto alla sottomissione, dice che ci saranno sempre i ricchi e i poveri, pensa che ci siano i dannati, è insomma classista, autoritario, antiegualitario per eccellenza. È vero che ad esempio Tolstoj era un anarco-cristiano; ma Tolstoj non era una beghina fascista, era cristiano in un senso molto umanista. La frase a cui ti riferisci, se c’è e la ha scritta la redazione di AcrataZ, vuol però dire un’altra cosa: che essere anarchici non è mettersi un dogma sul groppone, per cui anche la libertà non va pensata come Libertà con la “L” maiuscola, come cosa da adorare e di cui fare l’ennesima religione accettata passivamente, magari soffrendo e facendo soffrire per la maggior gloria di qualche potere, ma come una pratica comune, mutevole, che dipende da noi, e non da cui dipenderemmo noi.

In tutti i lavori o si è dipendenti o si comanda?
Bakunin dice che in termini di stivali si rimette senza dubbio all’autorità del calzolaio: come dire, se vuoi costruire un casa che non crolla e non sai fare i calcoli strutturali, è certo bene affidarti a qualcuno che li sappia fare: ma un conto è riconoscere le capacità di uno, un altro prenderlo per “capo” ed esserne dipendenti. Anarchicamente se uno sale sulla scala a piantare un chiodo, un altro gli può tenere la scala… ma non c’è certo relazione di dominio! Si può obiettare che senza strutturazione autoritaria del tipo capo/dipendenti la produttività crollerebbe.
E allora? è già completamente dopata! produciamo un sacco! e produciamo un sacco di roba che non solo non serve ma fa malissimo! E poi: sicuri? Sicuri che sotto la frusta le persone lavorino meglio che se hanno motivazioni proprie?
Attenzione: qui entra in gioco la “servitù volontaria” di La Boetie. Tanti accettano di essere dominati a patto di dominare qualche pesce più piccolo. E poi, c’è il vantaggio di defilarsi. Obbedire lima, liquefa e erode le persone, ma tutto sommato è più facile che farsi le cose da sé. Non a caso la democrazia attuale funziona così bene (cioè, male) quando quasi tutti si occupano di politica… quando? MAI. Pensa che casino succederebbe se invece di farsi di TV per tre ore ogni sera, ogni sera uno ci si chiedesse: che cazzo succede? dove corro? sono felice? sono libero?
Molti hanno notato che in un mondo anarchico si lavorerebbe nettamente di meno nei lavori classici, ma si lavorerebbe moltissimo nel “lavoro” di far funzionare gioiosamente l’anarchia.

“Il vero problema dell’anarchia: che sostanzialmente si basa su idee che per una comune persona possono sembrare irraggiungibili, o addirittura ridicole”
“Persona comune”, chi è? Quella che sociosbirri e psicopolitici, Auditel e Istituti di Stato-istica dicono che io sono, ovvero che io devo essere? Se continuiamo a ragionare in termini di “persona comune” continueremo a vivere sempre in un mondo di merda… sei tu la “persona comune”? sono io?
perché dovrei esserlo? e se non voglio?
“In questa testa ho una confusione che non immaginate neanche”
Buon segno, vuol dire che nella tua testa c’è vita!
Ciao!
Akratik

LO PSICOFARMACO NON È CICORIA

Incipit
Prendo ad esempio una vicenda accaduta solo qualche giorno fa in Vercelli per raccontare una storia…

Si spoglia e si corica sui binari
da La Sesia 25 gennaio 2011

Ora è ricoverato in ospedale sottoposto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio.
“Per salvarlo, davanti a decine e decine di persone allibite, hanno rischiato di morire in cinque investiti dal treno. E’ accaduto alle 13 di giovedì, sul secondo binario della stazione ferroviaria di Vercelli. Il protagonista del tentativo di suicidio è un giovane di 26 anni, ora ricoverato nel reparto psichiatrico del Sant’Andrea. Il ragazzo, ben vestito e dallo sguardo tranquillo e inoffensivo, si trovava sulla banchina del treno in attesa del convoglio che stava arrivando. Improvvisamente, quando il treno ha iniziato a entrare in stazione, lui si è quasi trasformato… ”

“Nel cancello d’un garage c’è una mente, a metà, sì, ma c’è una mente: suono il clacson e mi si apre il cancello.
È proprio una comunicazione tra l’interno e l’esterno dove il suono cambia qualcosa nel cancello che lo fa aprire. Manca l’altra metà, che però c’è nel meccanismo della parola e della biochimica del neurone: quando si apre il cancello non fa suonare il mio clacson.

Ma prima o poi questo vuoto si dovrà colmare.
Forse non ho capito molto sulla mente. A parte che, con la capacità che hanno le parole (ma solo le parole? Il denaro non fa venire la vista ai ciechi?) di andare a modificare l’assetto biochimico dei miei neuroni, uno potrebbe anche dedurre che basterebbero solo le parole giuste per correggere l’assetto biochimico che a noi serve dentro i nostri neuroni e creare il nuovo assetto corretto.

Sembra che sia su questo meccanismo profondamente psico-biochimico che si fonda lo psicofarmaco. Quello dell’elettroshock era meglio conosciuto nel suo meccanismo psico-fisico. Tanto più quello degli psicofarmaci di ultima generazione. Se zummiamo sul fenomeno, è come se noi, su un grande scacchiera, spostassimo le pedine a seconda del quadro che ci serve creare, senza però toccare o far cadere le pedine non coinvolte. Anche nel puzzle succede così.

Psicofarmaci mirati si chiamano.
Lavorano per il sottile: spostano componenti biochimiche, fino agli atomi, e li risistemano all’interno dello stesso neurone a seconda delle parole che ci serve produrre, o a seconda delle parole che vogliamo andare a correggere.
Lo psicofarmaco sa dove andare, cosa fare e come farlo …

Sono le parole giuste che ci indicano la quantità giusta di psicofarmaco da somministrare: quando dall’assuntore siamo riusciti ad ottenere il pronunciamento delle parole giuste, vuol dire che la dose di psicofarmaco è quella giusta.
Non se ne usa né di più né di meno.

Basta solo avere chiaro quali sono le parole giuste. Ma anche le azioni, i comportamenti, la posizione nello spazio e nel mondo, il gioco, l’alimentazione, l’irrequietezza nei bambini, l’inquietudine negli adulti. Tutto.
È una questione biochimica. E lo psicofarmaco è come un bisturi che taglia solo dove c’è il male e come il chirurgo che cuce solo dove c’è la ferita. Selettivi sono. Prima non si capiva niente degli psicofarmaci.

Ma non togliamo la parola di bocca – la macchina stava scrivendo il pane di bocca – agli scienziati. Non parliamone più.

Ma poi questa mente s’è trovata?
NO MA CHE IMPORTA …”